“Sul Tango” di Davide Sparti

PUBBLICATO IL 11 Dicembre 2015

Sul tango l'improvvisazione intima - Davide SpartiSul tango – L’improvvisazione intima 
Davide Sparti  Ed. il Mulino – pp. 200 – € 15,00

1)
Nelle pagine che seguono intendo offrire ai lettori di Faitango il senso della mia ricerca sul tango argentino, affrontando alcuni punti chiave a partire dal mio recente libro “Sul tango, L’improvvisazione intima” (Il Mulino, Bologna, 2015). Poichè sono filosofo ed ho scritto un libro di analisi (filosofica) dei significati del tango argentino – piuttosto che un libro su ‘la’ filosofia del tango, come se si trattasse svelarne il segreto -, sorge spontanea la domanda sulla possibile affinità fra tango e filosofia, sopratutto in un epoca in cui la filosofia vede arretrare il suo posto, nella vita e negli scaffali, a vantaggio di quei libri che prosperano in quella zona incerta fra salute, intrattenimento e spiritualità in cui pure il tango viene fatto talvolta rientrare. Ebbene, il tango, pur essendo una pratica del corpo, è una danza con un alto tasso di riflessività: si ripercuote su chi la pratica, e praticarla significa comprendere le cause che la rendono possibile. Consideriamo quanto spesso, nel corso di uno stage o rientrando a casa dopo una milonga, siamo indotti a riflettere su una certa tanda, su una determinata postura, sul tipo di mobilità – o di energia – di cui siamo portatori. Ora, la filosofia è a sua volta una attività riflessiva, che nasce dal bisogno di porsi certe domanda e di esplicitare i propri presupposti.
Non basta. In quanto danza di improvvisazione, il tango valorizza il principio della contingenza, riassumibile nell’espressione: “è così, ma anche altrimenti”, nel senso che ogni interazione avrebbe potuto svilupparsi altrimenti, o diversamente dall’atteso (laddove il principio della necessità rimanda invece a ciò che non-può-non-essere). Quando balliamo il tango, pur assorbiti nella pratica, non siamo come robot che hanno attivato un programma e lo eseguono ciecamente. Quando ciò succede, quando si balla affidandosi al pilota automatico dell’abitudine – che è sede di economie cognitive -, ben difficilmente si risulterà reattivi e creativi. Quando ci si fissa su determinati segmenti del tango, occorre cercare di disfare le fissazioni, di produrre una de-fissazione, rimettendo se stessi, e il tango che si sta ballando, in gioco. Ebbene, la filosofia è a sua volta quella pratica che permette di pensare-altrimenti, la cui forma canonica è il saggio, che saggia, appunto, il significato e i limiti di una situazione. In questa disposizione a mettere in questione il già-dato emerge un’ulteriore affinità fra tango (quale danza di improvvisazione) e filosofia. Perciò ho avvertito presto l’esigenza di riconnettere il tango praticato di notte con la mia vita di pensiero diurna, come se vi fosse una sotterranea solidarietà fra ciò che muove i corpi di notte e il movimento del pensiero di giorno.
La prolungata adesione dell’analisi del tango all’ingiunzione pedagogica (che dispensa ricette e decreta il modo giusto di fare le cose), non ha permesso di comprendere fino a che punto il tango sollevasse questioni di più ampio rilievo che trascendono il momento dell’insegnamento. Per questo, oltre a praticare il tango, mi è sembrato importante domandarsi che cosa sia il tango, e quale siano i suoi significati. Il mio lavoro si colloca nel solco di questa interrogazione sull’identità e la portata tanto estetica quanto socio-antropologica del tango. E si propone di suggerire una serie di modi di pensarlo, al di là dell’aneddotica, delle discussioni sugli stili e dell’idolatria verso questo quel ballerino o quel cantante. In quanto pratica culturale, il tango non può sottrarsi alla questione del senso. Questione che ho voluto affrontare attraverso una triplice analisi: sapere del corpo, improvvisazione e desiderio. Affrontato così, il tango diventa un campo del sapere, che si stacca dai corpi di chi balla e può essere analizzato scientificamente.
Le domande che costituiscono l’oggetto privilegiato del mio lavoro sono le seguenti: che tipo di trasformazione del corpo presuppone e induce il tango? Che genere di sapere è quello di chi balla (questione della conoscenza incorporata)? Come indurre il nuovo nel corso della danza, generando combinazioni non programmate e facendo sì che ogni tango risulti diverso da quello precedente (questione dell’improvvisazione)? Come chiarire il potere di attrazione esercitato dal tango? Come si genera l’attaccamento al tango, l’urgenza di partecipazione e immersione nel metacorpo collettivo della milonga (questione del desiderio)? Cosa cercano nel tango coloro che lo balla? Cosa succede loro quando si aprono al tango? A quale tipo di soggetto da’ forma la milonga (questione dell’identità)?
Mi interessava esplorare non solo cosa rende il tango possibile, ma pure cosa lo rende necessario. Per scoprilo, oltre a mobilitare riferimenti teorici provenienti dalla filosofia, ho condotto un’etnografia a stretto contatto con ballerini e ballerine, letteralmente cheek-to-cheek (a contatto di pelle, ossia riflettendo su una pratica standoci al contempo dentro). Il mio campo privilegiato è stato l’arcipelago delle milonghe (piuttosto che il “tango da esportazione”, piccante e acrobatico, connesso alla performatività vistosa), un ‘mondo parallelo’ in cui il contatto fra due persone in movimento – nonché fra queste e le altre coppie (a loro volta in movimento) – genera un peculiare ambito, dinamico ed intimo al tempo stesso. Ho osservato, appreso, riprodotto e avvertito il modo in cui i ballerini di tango usavano i propri corpi, ed ho ascoltato il modo in cui descrivevano e giustificavano ciò che facevano (fra una tanda e l’altra i ballerini si scambiano il partner come anche piccole storie e alcune lamentele), in molte milonghe, soprattutto a Berlino, Parigi e Firenze. Tale partecipazione osservante, a sua volta, oltre a portarmi il più possibile in prossimità degli aspetti decisivi del tango, mi ha dotato delle risorse necessarie per stabilire rapporti di fiducia con altri membri della comunità del tango e, più fondamentalmente, di cogliere in esso aspetti nascosti ai non iniziati.
Si potrebbe rilevare che il pubblico del tango pensa poco e legge ancora meno. Balla certo, ponendosi però poche domande sulla pratica in cui è impegnato. Ne discenderebbe che la percentuale di costoro disposta a confrontarsi con i riferimenti teorici del mio lavoro è esigua. Come se esso avesse poco a che fare con il tango effettivamente praticato, arenandosi in una dimensione autoreferenziale. Come se, essendo il tango un ballo popolare d’accesso apparentemente più istintivo che cerebrale, non sopportasse teorie, se non al rischio di trasformarsi in qualcosa di fantasmatico e del tutto distaccato dalla dimensione materiale o fisica del tango vissuto da chi lo balla, forse ‘sporco’ ma di grande intensità emotiva. Si profilerebbe così un’incompatibilità tra vie d’approccio diverse: quella di un pubblico largo, spontaneamente attratto dalla danza come si è tradizionalmente configurata, e il bisogno di pochi di interrogarsi sui significati di quella danza.
Non credo che questa preoccupazione sia fondata. Anch’io sono ballerino avido che ha risposto all’appello del tango con incursioni notturne in molteplici milonghe. Arrivo, mi cambio le scarpe, getto un occhio alla sala, ricerco un contatto umano, lascio che la musica mi disponga in uno stato di improvvisazione, e poi ballo. Chi decide di vivere l’avventura del tango non è necessariamente consapevole dello spessore culturale di cui il tango è impregnato. Praticandolo quotidianamente, il tango diventa qualcosa di troppo noto e comune, di troppo vicino, per consentire la distanza necessaria all’elaborazione teorica. Proprio per questo ritengo che quanti conoscono il tango da milongueri e milonguere, senza doversi trasformarsi in tangologi, possano accogliere il mio lavoro, per uscire dal proprio quadro di riferimento, per ripensare alle abitudini sulle quali riposa (e si riposa) la pratica nella quale si riversano nel tempo libero.

2)
Che cosa è il tango argentino? Una forma musicale, coreutica e letteraria – non bisogna infatti dimenticare la messa in discorso del tango, il suo versante poetico, legato ai testi di tango. Una forma emersa nel periodo di transizione fra il XIX e il XX secolo all’interno di una popolazione, in prevalenza maschile, costituita soprattutto da migranti provenienti dal sud dell’Europa. Questa risposta semplice ad una domanda troppo diretta e quasi indiscreta nel pretendere di tracciare in due parole il senso di una attività, è complicata dalla circostanza che, pur essendo il tango emerso in un contesto specifico (la storia del tango è storia di deportazione, di migrazione e di esilio, dunque di travaglio identitario), esso è ormai fenomeno globale, componente diffusa dell’odierno mondo dell’intrattenimento. Il tango si riproduce oggi non solo nello spazio urbano attraverso una moltitudine di milonghe, ma pure nel contesto di festival, e persino di crociere e vacanze. La domanda sull’identità del tango, più che la sua genesi storica, investe oggi il suo statuto: sport o svago? Universo culturale o spettacolo? Avanguardia o mascherata kitsch? Una forma d’arte atletica o uno sport artistico?
Certamente spettacolare, il tango non è una danza di rappresentazione radicata nella scena del teatro e negli altri luoghi del circuito di diffusione dell’arte (di regola non si acquista un biglietto per andare ad assistere ad una milonga). Più che un ballo da ribalta, rivolto verso l’esterno, il tango è ballo sociale rivolto verso l’altro (l’interno). Se il tango è pratica non teatrale che avviene perlopiù nel contesto informale della milonga, esso resta pratica altamente comunicativa, che si realizza in maniera tale da coinvolgere sia i partecipanti sia gli osservatori. In fondo, oltre ai due ballerini (chi propone e chi risponde, o resiste) vi è un terzo elemento: lo sguardo di chi osserva, uno sguardo che contribuisce a costituire lo spettacolo di questo duetto rituale. Solo che tali osservatori, pur seduti a bordo pista a monitorare i corpi danzanti in termini di abilità e di stile, non sono esterni o periferici ma possono in ciascun momento diventare attori. Si tratta così di un pubblico coinvolto in una pratica partecipatoria, priva di una netta distinzione fra spettatore e spettacolo. Non solo. Nel caso del tango, la sensazione di interagire con altre persone (una funzione associata ai balli di società) prevale sulla sensazione di essere impegnati in qualcosa di significativo da guardare (funzione solitamente assegnata all’arte). Chi balla non sono artisti o professionisti di scena, ma persone qualunque, persone come noi, amatori coinvolti in una pratica sociale. Da questo punto di vista, senza negare l’attuale distanza del tango da un ballo di strada, esso resta un baile popular.
Sembra dunque più sensato iscrivere il tango fra le danze sociali, avendo però l’accortezza di notare la sua peculiarità di danza di coppia centrata sull’improvvisazione. Il tango è una forma di conduzione reciproca, una collaborazione che è una co-elaborazione (una improvvisazione a due). Non si sviluppa attraverso coreografie (a differenza del tango de espectàculo o tango escenario) che predefiniscono quello che deve succedere, ma nasce momento dopo momento grazie a due persone le quali, sullo sfondo della musica, conducono un’interazione attraverso un punto di contatto mobile che unisce i loro corpi in movimento. Abbiamo così una particolare relazione di coppia, basata sulla valorizzazione del momento di creazione congiunta, grazie al quale individui che non si sono mai incontrati possano cooperare, impegnandosi in una conversazione somatica dall’esito aperto.
Benché sia a tutti gli effetti una pratica cinetica, a differenza di altre forme di ballo (compreso il tango non argentino o da sala), il tango argentino non diventa danza di competizione, caratterizzata da un regolamento internazionale che disciplina la condotta e da un canone di figure obbligatorie. Il tango è certamente una pratica fisica regolata – una pratica del corpo – e come ogni pratica ha la sua tradizione e i suoi eroi; non ha però vocazione agonistica; non vengono conferite nè medaglie nè titoli. Non si crea infatti una asimmetria fra vincitori e sconfitti, non ci si esibisce per lottare e prevalere – per confronto – sui propri rivali. Non si danno record. Come ogni pratica basata sull’improvvisazione (in cui il disegno della danza viene creato in maniera non prestabilita e a ritmo sostenuto, ossia sotto la pressione del tempo), risulta contrassegnata da momenti di imperfezione e persino dal diritto di fallire. Per questo anche laddove la sequenza e le figure sono codificate, ogni tango ballato due volte, persino dalla stessa coppia sulla stessa musica, non sarà mai uguale, dipendendo dalla stanchezza, dagli umori che cambiano, dall’intesa, dall’interpretazione prescelta, dallo stile.
I cosiddetti balli standard (che comprendono un genere di tango non improvvisato e di derivazione non argentina), sono radicati nelle associazioni nazionali di danza sportiva, le quali riflettono a loro volta un’organizzazione disciplinare. Chi balla viene inserito in classifiche, ranghi, carriere, che rispecchiano la lotta per la superiorità. Vi sono vere e proprie categorie di età e di livello (ossia classi di bravura, che definiscono la competenza raggiunta dai ballerini). Abbiamo a che fare con una disciplina organizzata dalle federazioni, ossia con forme centralizzate e regolamentate di gestione di un’attività sportiva ufficiale, strutturata in circuiti di competizione. Una disciplina che implica un impegno continuativo e intenso, monitorata da un allenatore (che fornisce un saper-fare pensato per i tornei) e svolta all’interno di spazi attrezzati. Nel quadro di tale competizione agonistica vale la capacità atletica, oltre che estetica. Ed esiste una carriera – definita in termini di soglie (le classi) di volta in volta oltrepassate (ogni classe rappresenta anche il grado di difficoltà con cui ci si misura). Circostanza che trasforma il semplice ballare in un progetto estetico misurabile.
Nel caso del tango argentino, non si tratta di gesti stilizzati e pre-coreografati che vengono affinati per un’esibizione performativa, ma di sequenze ricreate sul momento nel contesto non rappresentazionale della milonga. Anzi, i gesti troppo rigidamente codificati (come quelli delle competizioni di danza) sono estranei all’estetica della milonga. La danza sportiva, inoltre, impone spesso una certa deludizzazione dell’attività e del corpo, che diventa essenzialmente vettore di prestazione. Per questo molti esponenti del tango argentino trovano il tango da sala troppo rigido, forzato e artificioso nella sua appariscenza (nel tango da sala chi balla è chiamato a esprimere sensazioni che non prova, impegnandosi in una danza recitata più che sentita). Lo scopo di chi balla il tango argentino è innescare un’esperienza di flusso, di energia congiunta con un’altra persona, piuttosto che quello di offrire/proporre fermo-immagini spettacolari o una serie di azioni staccate – anche in senso musicale – e reificate. I ballerini non si limitano a eseguire catene di passi prefissati; lavorano sulle varianti, ‘rispondendosi’ reciprocamente in termini di movimento. In questo senso il tango corrisponde ad un incontro e una trasformazione con e attraverso l’altro, un corpo a corpo né sessuale nè agonistico.
Vorrei soffermarmi sulle conseguenze di quest’ultima osservazione. Chi si concentrasse sulla trasmissione del tango come forma estetica scoprirebbe un particolare modo di trasformazione del sapere: i codici del tango non sono mai solo inscritti nel e riprodotti dal corpo; sono agiti (e modificati) attraverso l’uso creativo del movimento. I movimenti sono non solo sintomatici di un vocabolario oggettivato da riprodurre con fedeltà, ma anche ricreati in maniera inedita di milonga in milonga. Il tango valorizza la dimensione performativa a scapito della concezione patrimoniale, esemplificando quella che potremmo chiamare la riconfigurazione creativa di quanto ereditato dal passato. Attraverso la mutazione della semantica del movimento, l’istituzione tango si riarticola nel tempo. In quanto danza di improvvisazione al tango è immanente un’oscillazione fra determinazione (collegata ai vincoli imposti dalla tradizione) e indeterminazione, prodotta dall’introduzione di nuovi modi di muovere il corpo, modi che impongono una distanziazione dai modi consolidati. Ciascun tango diventa così parte del farsi storico – della riproduzione stessa – della comunità tango nel suo complesso. Per questo il tango ha saputo trasformarsi senza dissolversi in altre forme.
Insisto sul particolare rapporto fra tradizione e innovazione nel tango. Abbiamo ricordato come la milonga coincida con uno spazio mobile, nel senso che non si balla all’interno di uno spazio delimitato da un codice rigido, ma ogni coppia ricrea continuamente uno spazio coreografico mentre balla. In senso lato, nelle milonghe chi balla modella collettivamente il futuro del tango, generando – anche involontariamente – nuovi movimenti e nuove sequenze che possono fungere da esempio per gli altri. Certo, solo in rari casi, la mossa innovativa si impone e diventa esemplare. Ma chi lo decide? Non una commissione o giudici esterni quanto la prassi stessa del tango. Senza negare che vi sia sempre un giudizio implicito sul e dell’altro in termini di livello e abilità, nel tango non vi è, come nell’esecuzione di una coreografia o di una competizione di ballo, una valutazione pubblica, ufficiale. A differenza della coreografia (che si rapporta a un progetto predefinito), l’improvvisazione, in un certo senso, non si giudica. Ha sempre valore. Così se ci sono posture e posizioni da evitare perché compromettono la confortevole autonomia del partner, non vi sono errori quanto alle sequenze, che possono essere non solo aperte, ricombinate, indeterminate, ma pure trasformate in qualcos’altro in seguito ad un malinteso o un difetto di comunicazione.
Mi sembra qui pregnante la distinzione di Chomsky fra rule-based creativity (la ricombinazione illimitata di passi e di figure trasmesse nelle scuole) e rule changing creativity (l’occasionale generazione di nuove regole). Vi è uno scarto fra la piccola (ma talvolta significativa) ricollocazione di un movimento o di un gesto da parte di un anonimo milonguero (sul lungo periodo mutiamo le regole che pure reputiamo, ad ogni singola istanza, di seguire), e il più netto allargamento del vocabolario del tango da parte di certe figure chiave le cui mosse hanno una potenza estetica che le rende emblematiche, Quando balla, l’innovatore esibisce la potenza della fonte da cui proviene il movimento. Avendo maturato uno stile, si fa notare e suscita interesse perché ha qualcosa da mostrare. E ciò che si ama attira, chiede di essere ripreso, esige ripetizione. Tuttavia, la particolare contiguità fra amatori e professionisti nel tango assume un ruolo decisivo: i primi continuano a essere fonte di ispirazione o quanto meno di spunto per i secondi, e viceversa, i secondi non rinunciano alla milonga come luogo per far ricircolare gesti, passi o idee. Abbiamo così un meccanismo di sviluppo dal basso della sintassi della danza, in cui l’inventiva individuale finisce per iscriversi nel linguaggio estetico del tango, dando luogo alla graduale cristallizzazione di pratiche di improvvisazione, generando un infinito riposizionamento del patrimonio di risorse stilistiche della danza. In questo senso, a differenza di altre forme di danza, il cui sviluppo è guidato dalla formazione di compagnie fondate da coreografi di fama, il tango si diffonde attraverso la metabolizzazione di gesti e movimenti generati nel corso della pratica stessa.

3)
Vorrei adesso dedicare alcune osservazioni a ciascuno dei grandi temi sopra citati (sapere del corpo, improvvisazione e desiderio). Partendo dal primo tema. In rapporto alla questione del sapere del corpo, si tratta di chiarire come si diventa ballerini di tango, ossia titolari di una specifica capacità di azione. assoggettandolo alla necessità di modificare il proprio corpo per renderlo compatibile con i movimenti del tango. Affinchè indicizzi un vocabolario di gesti che permetta di rapportarsi all’altro con la fiducia proveniente da un passato di movimenti incorporati, il corpo – nel tango – è al tempo stesso stesso soggetto e oggetto dell’azione, ossia la sede e il bersaglio di chi impara a ballare. La parola “sapere”, a ben vedere, copre due forme molto diverse di conoscenza: il sapere-che ed il sapere-come, e quest’ultima, ossia l’abilità di ballare il tango, non può essere guadagnata da chi non ne fa esperienza (come rivela l’etimologia tedesca della parola “esperienza”, er-fahrung, che vuole dire passare attraverso). Se i movimenti della danza possono essere videoregistrati, la sensazione del contatto, di un invito a muoversi in una certa direzione. non possono esserlo (sono già difficili da verbalizzare). Si tratta di un sapere che rinvia a un insieme di disposizioni specifiche iscritte nei corpi attraverso schemi di azione, schemi che riflettono l’esperienza passata e consentono di orientarsi nel campo senza presupporre calcoli.
Come spettatori non iniziati al tango disponiamo di una percezione semplificata in virtù della quale prestiamo attenzione all’aspetto figurativo (alla linea di spostamento della coppia), Ma prima ancora di muoversi effettivamente, l’intenzione di muoversi produce un tendere-verso, ed è questo prima-ancora che il partner avverte. Il movimento interno (questo preludio del movimento, simile allo stato di elasticità di chi attende l’azione), diventando incipiente, si rende avvertibile e si fa movimento esterno. A rigore, non muovo nemmeno l’altro; ci muoviamo in maniera relazionale, creando un intervallo all’interno del quale ci si muove insieme. La micro-analisi di quello che avviene nel corso di un tango rivela una coregolazione immanente all’interazione dei corpi, che si impegnano in un monitoraggio reciproco e si scambiano continuamente un flusso bidirezionale di stimoli. Chi conduce non solo possiede conoscenza causale (se faccio X provocherò Y); sente fino a che punto chi segue ha avvertito (e completato) il gesto che intendeva sollecitare, e può incrementarne l’intelligibilità, modulando e confermando il gesto, o ridefinirlo ed eventualmente sospenderlo in corso d’opera. L’azione congiunta del tango implica soprattutto risonanza motoria: ascolto la musica e ne traggo ispirazione, ma con il corpo ascolto anche il modo in cui il mio partner ascolta e reagisce alla musica, e a me. Mi rendo così conto se quello che faccio genera un sentire condiviso, che è poi un consentire. Nel tango questa fondamentale suscettibilità al tatto (il senso più denigrato dalla cultura occidentale) viene riattivata: avverto l’altro, avverto di avvertire, e avverto che l’altro avverte a sua volta.

4)
Vengo ora al tema dell’improvvisazione, una forma creativa terza rispetto alla produzione industriale e alla progettazione di una coreografia. Consideriamo il coreografo, che costruisce con grandi raffinamenti successivi un’opera fissata e compiuta (la coreografia, la partitura), con il suo statuto di oggetto inalterabile, oggettivato, esposto ad una contemplazione estetica stabile. La sua attività creatrice è invisibile agli occhi del pubblico, è dilatata nel tempo, è frammentata, ed è contrassegnata da ripensamenti e riscritture. Benché vi sia anche qui improvvisazione, è come se fosse relegata a uno stadio preparatorio e preliminare e riguardasse solo l’ambito della sperimentazione privata. Abbiamo una composizione per mezzo dell’improvvisazione (un’improvvisazione via via corretta e scolpita), come se quest’ultima non avesse una logica propria e fosse solo utile per generare materiale embrionale, destinato ad essere superato nel venir assunto e codificato in un tutto coeso, una coreografia – appunto – che avrà vagliato a lungo quel materiale, dandogli forma e assegnandogli riferimenti spaziali. Solo se così prodotto, quale lavoro coreografato soggetto a re-visione (eliminando ridondanze e incoerenze), sarà degno di essere presentato in pubblico.
A differenza dei balli standard, dove si apprendono sequenze coreografate, nel tango non si imparano sequenze in quanto tali, ma schemi per la produzione di (nuove) sequenze. Quando nel contesto di una lezione chi insegna chiede agli allievi di pensare/inventare un ”uscita” da una sequenza appena appresa, diviene chiaro come la divisione fra l’apprendimento formale della tecnica e la pratica dell’improvvisazione non valga per il tango: fanno parte dello stesso processo, un processo che recupera la dimensione dell’iniziativa affinchè i necessari punti di riferimento non diventino un rifugio in cui installarsi. Chi improvvisa crea (compone, mette insieme, assembla) in condizioni ‘spettacolari’, nel doppio senso che crea in presenza di spettatori, e che crea mentre balla. Il tempo concesso per generare un movimento corrisponde esattamente alla durata di quel movimento. I parametri dell’interazione sono stabiliti in situ, durante il ballo piuttosto che prima di esso, disegnando in tempo reale una coreografia inedita. A differenza di quanto accade nel caso del coreografo, che dispone del lusso del tempo, quando si improvvisa non si può retro-danzare quanto ballato, o disballarlo, come si riarticola la combina di un film. L’inderogabilità e lo stato di emergenza che contrassegna l’improvvisazione deriva da questa simultaneità di invenzione e produzione. Un tango ballato è così un oggetto particolare, contrassegnato dalla co-autorialità (è co-generato dai due ballerini) e costruito diacronicamente mentre lo si porta a compimento. Nel film-documentario Tango Baile Nuestro si vedono degli anziani milongueri argentini che assistono alla performance di un gruppo di ballerini di tango ripresi per un programma televisivo inglese. Alla fine della performance i milongueri, in maniera quasi unanime, esprimono il loro disgusto per un ballo coreografato. Nella sua irripetibile singolarità, il tango non segue impronte (nè lascia tracce); resta avvenimento, evento, mai monumento.
Intorno allo statuto dell’improvvisazione si sono creati fraintendimenti e mitologie. Definire ‘libera’ l’improvvisazione, ad esempio (così come l’idea di una creazione ‘di getto’), è un vizio epistemologico. La libertà di chi improvvisa è sempre condizionata, poichè ogni nuova azione reca in sè il peso del passato. Consideriamo la temporalità di chi improvvisa, tenendo il tango come ambito di riferimento. Nel caso della danza coreografata il tempo è quello ragionato e fissato nella traccia coreografica, che nessuno mette in dubbio. I gesti sono ricondotti a un passato che riproduco e rivitalizzo nell’esecuzione (non sono dunque gesti morti; semplicemente, non hanno l’urgenza dell’attualità). Nel caso del tango, invece, il tempo si realizza e configura adesso (i gesti sono generati sul momento), in un presente di cui, come ballerino, faccio parte a pieno titolo. Il tanguero non segue impronte. E tuttavia chi improvvisa guarda necessariamente al passato, a quello prossimo, grazie alla ritenzione di quanto appena avvenuto, ma anche al passato storico, al ricordo di quanto avvenuto tempo fa. Sia per intercettare spunti da portare a compimento, sia per evitare inizi abortiti e fallimenti passati. Come ricordato, chi balla si affida ad un vocabolario di gesti che il corpo ha “indicizzato”, permettendo di agire a partire da un già-danzato/già sentito che costituisce la conoscenza di sfondo condivisa fra ballerini. Oltre che rivolto al passato, chi improvvisa si proietta in avanti – è proteso verso l’istante successivo, verso l’avvenire. Solo che questa capacità di generare inizi, questo pensiero incipiente legato alla protensione del futuro, non implica anticipazione di quello che deve accadere. quanto piuttosto apertura nei confronti del non-ancora-accaduto. A rigore, all’imprevedibile non si può nemmeno essere preparati. Ci si prepara per l’imprevisto, ma dato che l’imprevisto è imprevedibile, siamo al tempo stesso preparati e impreparati. L’aporia è questa: se sono troppo preparato nei confronti dell’imprevisto, l’imprevisto non è più tale. Benchè non ci si possa preparare a questa improvvisazione (per definizione unica e irripetibile), si può tuttavia essere pronti.
Questa aporia ci porta a demistificare l’immagine di un soggetto dell’improvvisazione quale sovrano della creatività. Non sovrastiamo l’interazione come soggetti anteriori ed esterni a essa, separati e collocati in una posizione costituente. Al contrario, quando improvvisiamo, siamo ciechi nei confronti dell’esito dell’interazione, come suggerisce la stessa etimologia del termine: im-pro-video (non pre visto). Ed è proprio quando non sappiamo esattamente cosa succederà, quando ci troviamo in un momento di sospensione dei punti di riferimento abituali, che emerge la possibilità della scoperta. Sotto questo profilo l’improvvisazione presuppone la capacità di indebolire il controllo. Faccio spazio all’avvento o sopravvento del nuovo, assecondo l’avventura dell’aver luogo dell’evento inatteso, permetto alla situazione o alle reazioni dell’altro di provocarmi. La generazione del nuovo, allora, rimanda non a un luogo permanentemente abitato da un inquilino direttivo ma piuttosto a un (non) luogo per definizione ingenerabile. Piuttosto che imporre il mio copione – andando inevitabilmente incontro a una resistenza, o quanto meno, a un inutile dispendio, faccio evolvere la situazione in fruizione del potenziale che vi scorgo, quasi un galleggiare attivamente, mantenendosi duttili, in stato di agile virtualità. Che tipo di agire è questo? Un agire che mina l’impalcatura in funzione della quale ci rappresentiamo: un soggetto che presume e progetta, caratterizzato dalla padronanza e dal controllo. Già la circostanza di essere in due (con un corpo estraneo a cui posso connettermi ma che per quanto comprima resta separato) introduce nel tango una sfasatura ineliminabile, una sfasatura che non permette di coincidere interamente con se stessi.
Quando improvviso mi aspetto che accada qualcosa, ma che cosa esattamente accadrà resta incerto. Durante la danza il senso di quello che stiamo facendo non sempre è chiaro o anticipabile. E’ solo a posteriori, una volta che il tango o quel passaggio sarà infine terminato, che ci rendiamo conto che è stato tracciato un percorso intelligibile, che fra i movimenti emerge un ordine, che i passi configurano un raggruppamento organico, una costellazione quasi necessaria. La forma temporale dell’improvvisazione è dunque il ‘futuro anteriore’. Il futuro anteriore è un avvenire concepito per anticipazione come passato, e permette di spiegare il paradosso dell’imprevedibile previsto a metà. Profeti retrospettivi, i tangueri pre-sentono che questo tango avrà un senso, benchè non sappiano quale sia finchè, retrospettivamente, sarà emerso. Non si tratta di un difetto (una mancata sincronizzazione fra ballo e progetto, un ‘ingiusto’, persino crudele ritardo della rappresentazione cognitiva rispetto all’effettivo disegno della danza) ma della condizione di possibilità dell’improvvisazione
Un aspetto cruciale dell’improvvisazione riguarda la valutazione, e la differenza fra errore e spunto creativo. Ciascun ballerino può commettere errori tecnici, invadendo ad esempio lo spazio del partner, non rispettando il suo asse, esercitando troppa pressione con il braccio. Non è difficile avvertire quando si viene sollecitati da energia eccessiva o mal indirizzata, o quando il tango è troppo frettoloso, in anticipo sui tempi. Nè è difficile rendersi conto quando si è lontani dalla musica, e/o dal proprio partner. La nozione di errore estetico, nel contesto di una pratica improvvisata come il tango, è invece meno ovvio. Un errore può essere definito come deviazione da determinate aspettative. Al fine di riconoscere in un evento un errore, è cioè necessario un quadro di criteri normativi e di corrispondenti aspettative su ciò che è legittimo e ciò che invece è interdetto. In questo senso non vi è errore di per sè, ma solo nella cornice dell’ordine normativo che fonda una determinata pratica. Ora, nel tango questi ordini non sono completamente rigidi, perché chi balla può modificare e persino trasformare dinamicamente lo sfondo normativo della pratica nel corso stesso della sua applicazione. Mosse che erano difetti in un ordine normativo precedente possono risultare corrette nel nuovo contesto. Situazioni impreviste, incidenti o malintesi, magari indesiderati, possono risultare stimoli sorprendenti per l’esercizio della creatività, se vi si riconosce un potenziale, la prefigurazione di un modo inatteso di proseguire. Un gesto sbagliato, ossia un gesto che ferisce lo stile prescelto, l’armonia di una sequenza o il ritmo del brano su cui si balla, può essere ricontestualizzato e risolto, o può diventare vettore di una virata verso altri criteri estetici. Immaginiamo di trovarci alla fine degli anni Novanta: assistendo ad un certo gesto nel corso di un tango, si potrebbe esclamare: “ma questo non è tango!”. Ebbene, Ciccio Frumboli avrebbe potuto rispondere: “non si preoccupi, un giorno lo diventerà”. Lo diventerà quando il quadro estetico sarà cambiato; quando si saranno trasformati i criteri con cui giudicare il gesto, esso assumerà un altro valore.
Quale è la condizione di possibilità dell’improvvisazione? Come evitare di concludere che occorre inchinarsi muti di fronte a qualcosa che appare magico ed elusivo? Se nel tango si apprendono inizialmente copioni, ossia piani deliberati che permette di rappresentare uno stato a venire, nel corso del tempo si impara non solo a combinare tali copioni ma a riscriverli dinamicamente (in atto) sfruttando quelli che chiamerei i punti nodali, ossia punti in cui gli elementi del tango, tipicamente, si connettono fra di loro. Si tratta di giunture che agevolano la transizione fra gli elementi che costituiscono le singole improvvisazioni. Anche se vi sono degli snodi preferenziali, con l’esperienza si arriva a riconoscere che ciascuna delle posizione nelle quali i ballerini si vengono a trovarsi permette di cogliere un ventaglio di possibili modi di continuare. In questo senso gli snodi consentono di ridirezionare la danza verso nuove traiettorie, funzionando come una sorta di scambio ferroviario o punto di smistamento, aprendo una serie di potenziali ramificazioni. In sintesi, quando si improvvisa, l’intenzione non si forma prima dell’azione (come quando si segue il copione); emerge e si articola nel corso dell’azione (si scopre dove andare e come andare avanti mentre si procede).
Sottolineare questi aspetti relativi alla logica della creatività nel tango non significa abbracciare l’esaltazione modernista nei confronti del nuovo, la quale sembra suggerire che ogni innovazione e sorpresa debba essere positiva, ignorando il lato oscuro dell’improvvisazione: la circostanza che molto spesso le sorprese sono di segno opposto – producono disagio. Per questo il tango è sempre anche carico di ansia, perché l’ombra del fallimento è perennemente in agguato. Di più: se il tango ha a che fare con la capacità di rispondere agli indizi emersi nel corso della danza, di rispondere – cioè – a chi quegli indizi li genera, coloro che ballano saranno non soltanto impegnati in un dialogo pacifico: saranno pure oppositori che si sfidano; ci sarà non solo e non tanto sensibilità e supporto, ossia mutualità, ma interferenza, agonismo, supremazia nel definire la direzione, la forma e il ritmo della danza. Nonostante il desiderio di essere in due, le coppie finiscono talvolta per scambiarsi le reciproche tensioni. Conflitti e attriti sono parte integrante del tango, che è impresa sociale ma non necessariamente dialogica e inclusiva. Quando la connessione o la complicità non s’instaura, quando non riusciamo a rapportarci al partner, si fa non solo esperienza di un disagio fisico e di una scomodità dei corpi (l’energia è ostruita); ci si sente soli. I due ballerini stanno uno di fronte all’altro ma ognuno è restato dalla sua parte. La frontiera del “proprio” non è stata varcata. In questo caso abbiamo non quel singolare animale a quattro gambe che deriva dalla somma di due bipedi e che rappresenta l’epitome del tango, ma due solitudini condivise, una comunità senza comunione. Il tango è così anche un’arena del disamore e dell’amarezza: corpi che si cercano e non si trovano, dubbi sul proprio valore, gelosie, frustrazione… La tanda si è trasformata in una tanguedia, per usare il termine di Fernando Solanas adottato anche da Piazzolla

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Vengo infine alla terza questione esplorata nel mio libro, quella del desiderio e dell’intimità, questione che emerge in rapporto alle seguenti domande: a cosa ricondurre la motivazione che porta il ballerino di tango all’assuefazione da milonga? Come fa il tango a convocarci? Da dove deriva la sua necessità? Dove risiede la sua qualità compulsiva? (il tango può talvolta assumere una forma nevrotica, non più un’abitudine che infonde vitalità, un sano attaccamento, ma una dipendenza da milonga). La risposta sembra pienamente esposta, eppure si ritrae e sfugge ostinatamente alla presa. A coloro che ballano il tango non sembra necessario spiegare la risposta; la vivono. A coloro che sono estranei al tango, è viceversa impossibile chiarirla.
Senza scadere nell’ecumenismo tecnofobico di chi, con tono evangelizzante, raccomanda il tango ravvisando in esso l’ancora di salvataggio per scongiurare i rischi di un mondo digitalizzato, non è fuorviante sostenere che il tango risponda a bisogni non soddisfatti altrove. In un’epoca in cui la porzione di tempo libero speso in solitudine e ‘passivamente’ è accresciuta, e in cui incrementa l’interconnessione virtuale ma diminuisce il contatto fisico fra le persone, il tango rappresenta una particolare forma di socialità urbana, fondata su un contatto ravvicinato eppure diverso da quello degli spazi affollati in cui individui estranei si incrociano superficialmente senza entrare in interazione. La milonga è un’esperienza pubblica che si consuma nel corso di pochi minuti fra persone che non sempre si conoscono. Si tratta di una forma particolare di socievolezza, nel senso dato da Georg Simmel a questo termine, che legittima, persino autorizza con la sua stessa struttura un’alternanza – regolata – dei ballerini (chiunque può avere un interesse immediato a concentrarsi esclusivamente su un certo partner, ma la reiterazione e amplificazione di questo fenomeno svuoterebbe di senso la milonga come evento sociale). La milonga, veicolo di interazione, diventa così anche uno spazio di promiscuità, dove si può e persino si deve cambiare il partner; dove la curiosità di stringersi e connettersi a qualcuno per avviare uno scambio il cui esito è ignoto trova appagamento. Circostanza che fa del tango l’ambito dell’intimità lecita.
Al pari di qualunque altro bene, l’intimità si può consumare, ed in un’epoca con un alto tasso di separazioni diventa ‘merce’ ricercata. Il tango – che permette una forma di intimità ulteriore rispetto all’incontro sessuale e alla relazione di lunga durata basata sulla convivenza – è sotto questo profilo un’arena che mette in circolazione e permette di amministrare i nostri bisogni emotivi (permette di socializzare la libido). Sulla falsariga della diagnosi di Zygmunt Bauman nei confronti dell’epoca post-moderna, il tango sembrerebbe corrispondere all’ideale liquido-moderno di una connessione duttile e senza impegno: l’accoppiamento della tanda non implica alcun legame fisso, e prevede anzi la rescissione immediata del legame una volta terminata. Secondo Bauman, pur ansiosi di instaurare rapporti, saremmo impauriti dall’idea di restare impigliati in relazioni stabili. A tale ansia si compensa ricorrendo al principio del capriccio consumistico: non si costruisce una relazione; ci si toglie delle voglie. Il linguaggio della connettività si sostituisce progressivamente a quello della relazione. Ed ogni connessione è per definizione temporanea e quindi sostituibile. Nel tango non sembra esservi niente che duri, salvo la rapidità del cambiamento: ed è proprio questo – la fluttuante emozione stimolata da una comunità di occasione – che parrebbe attraente.
L’avventura dell’incontro con l’altro dura, di regola, non più – ma neppure meno – di quindici minuti, configurandosi come un evento a tempo (e a rischio) limitato. Una coppia di circostanza, che non sigilla alcuna alleanza, nè implica alcuna fedeltà nei confronti di chi abbiamo o chi ci ha invitato. La complicità che si instaura nel corso della tanda, peraltro, scavalca la curiosità. Non si fanno domande, poco si viene a sapere l’uno dell’altro; non per indifferenza, ma perchè la tanda appartiene a un altro ordine. Finita la tanda siamo restituiti alla nostra vita di entità separate. La fusione, se emerge, emerge in quel tempo breve, e il legame intrecciato con l’altro nella sala da ballo raramente transita al di fuori della pista. Quelli del tango sono encounters, nel senso goffmaniano di interazioni effimere, senza il sovraccarico di obblighi o le pastoie della sessualità o della prole, eppure contrassegnati da intimità e intensità emotiva. Una serie ciclica e potenzialmente infinita di incontri con una facile opzione di uscita (vale la pena di ricordare che già in origine il tango è ballo urbano, che si realizza e costruisce in un contesto culturalmente mutevole e fluido, permettendo forme di socialità in cui individui diversi vivono fianco a fianco senza tuttavia sentirsi costretti a stringere legami duraturi).
Personalmente sarei meno cinico dei Bauman. Benchè sia un’esperienza della prossimità, nel tango non si tratta del desiderio bruto di entrare in contatto con l’altro sesso. Se il tango alimenta uno spazio liminale e libidinale in cui la proiezione del desiderio dell’altro si genera, rigenera e riproduce, vi è tensione fra desiderio e disciplina (o tecnica): chi soccombe al godimento del contatto con l’altro rischia di compromettere il flusso della danza. Il piacere, che nel tango ha anche una dimensione analitica (il piacere geometrico della precisione), emerge soprattutto quando la condivisione estetica si realizza, generando fiducia e gioia nel riuscire ad accogliere i propri reciproci segnali. Se c’è un’erotica, si tratta di un’erotica della creazione congiunta, che ricorda quella che Marcuse chiamava la dimensione estetica, in cui i legami libidici si estendono al di là dei confini della sessualità, configurando un’etica del piacere da coltivare ad ampio raggio, simile al godimento che si trae dal giocare bene a scacchi o nel tentare una forma sperimentale di pittura, in cui provo piacere sia nel risultato che nell’attività che conduce ad esso.
L’apice del tango è una vertigine per definizione transitoria, ed è questa transitorietà che la rende straordinaria e forse anche triste. Il tango non ha un coronamento finale. Una volta terminato, non testimonia altro se non la propria dissoluzione – e quella dei suoi autori. Di qui la coscienza della provvisorietà del tanguero: finita la tanda, chi balla pensa già alla prossima; è sempre orientato al futuro, alla riattualizzazione infinita, di tango in tango, dell’apertura dell’incontro (intimo ed esplorativo) con l’altro. Su questo Bauman ha ragione. Eppure la profonda affinità di cui si fa talvolta esperienza non può essere ridotta alla gratificazione personale di una ebbrezza momentanea. Si tratta piuttosto di un bene di fortuna o di grazia – a patto di non intendere quest’ultimo concetto nell’accezione cristiana di dono divino, ma nel senso pagano di bene concesso arbitrariamente dalla sorte. A questa famiglia di beni appartengono gli incontri casuali, i legami affettivi e le esperienze di comunione come l’amicizia e l’amore: tutte cose che gli esseri umani desiderano fortemente, e senza le quali la loro vita non potrebbe mai dirsi davvero felice, ma che per definizione si sottraggono al loro controllo. Abbinamento utopico fra la libertà di esplorare e il momento comunitario (l’istanza di socialità), il tango incrocia la dimensione della possibilità (improvvisazione) con quella del desiderio (di intimità), generando una comunità di ballerini che si donano reciprocamente creatività e connettività, perseguendo il piacere della creazione congiunta nell’ambito di uno spazio pubblico.
Sepolta nel tango c’è dunque la promozione della vita plurale, che è poi la possibilità di deporre la propria individualità nel contesto sociale della milonga, di scaricarla in una circolazione collettiva. Per vivere, per esistere, abbiamo bisogno di non essere ridotti a noi stessi; abbiamo bisogno di partecipare a una forma di circolazione che passa attraverso gli altri, e il tango è precisamente un tale circuito. Proprio perché ho la percezione dell’insufficienza della vita, o meglio, della finitudine di una vita e di un corpo, avverto il richiamo di questa indefinita possibilità – offerta dal tango, e che anzi è coestensivo al tango – di ricongiungersi all’altro. Il tango ci permette di riconoscere lo scarto fra questo ballo qui, che sto ballando ora, con te, e una dimensione più alta: non solo essere qua, nelle braccia di questa persona, in questo momento, ma essere situato fra le persone che mi hanno preceduto e quelle che mi seguiranno, situato in questa catena. Di fronte a questa catena, riconosco con umiltà che il tango mi sopravvivrà, che siamo noi l’elemento fragile, passeggero, e che è il tango l’elemento che ha più avvenire.
Nel sottolineare questi aspetti non si tratta di abbracciare più o meno surrettiziamente lo stereotipo del tango come qualcosa di intrinsecamente «buono e vitale», né di evocare eventuali glorificazioni nostalgiche e populiste per il tango quale eperienza comunitaria. Il tango basata a se stesso e non richiede giustificazioni esterne. Si tratta invece di comprendere «perché» una pratica come il tango esista, da dove derivi, cioè, la sua «necessità». A questa comprensione ho voluto dedicare la mia ricerca.

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